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La cosa che colpisce nel racconto di Lazzaro e del ricco epulone del Vangelo di oggi, è esattamente il paradosso dell’illusione di chi pensa che il verbo avere siamo migliore del verbo essere. Il ricco epulone coincide talmente tanto con i suoi averi fino al punto da perdere persino la sua identità, ecco perché non si riporta neanche il suo nome. Il povero invece che di averi non ne ha, ha invece qualcosa di più importante, un nome, un’identità, un verbo essere. Egli appunto è Lazzaro. Dio è Colui che ci promette di difendere fino all’estremo il nostro verbo essere. Egli non ci promette averi, ma ci promette di farci diventare noi stessi fino in fondo, al di là della vita che ci è capitata in sorte di vivere. La vita eterna è vedere la realizzazione del nostro vero essere. L’inferno è il prolungamento di questa mancanza, il tormento di aver smarrito l’unica cosa che conta. Ma tutto dipende dalle nostre decisioni attuali. E per poter decidere di fare la cosa giusta non servono segni straordinari, ma basta far funzionare la mente e il cuore. Per questo Abramo rifiuta al ricco epulone la richiesta di mandare Lazzaro a convincere i suoi fratelli ancora vivi a convertirsi: “Ma Abramo rispose: Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro. E lui: No, padre Abramo, ma se qualcuno dai morti andrà da loro, si ravvederanno. Abramo rispose: Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi”. In questo modo Gesù vuole dire che la sua vita, la sua morte e la sua resurrezione non sono un imposizione ma una provocazione alla nostra libertà. Davanti alla testimonianza di Cristo possiamo decidere di capire o ostinarci a vivere in maniera contraria. Tutto dipende da noi, non da chi dovrebbe convincerci.

L. M. Epicoco