Lo racconta nel suo ultimo saggio Scott Hann. Il saggio riprende i fondamenti del magistero della Chiesa su questo tema nodale: la morte e risurrezione dei nostri corpi
«La maggior parte di noi non crede veramente nella risurrezione dei corpi. Oppure deve fare un grosso sforzo per crederci […] penso che molti di noi credano che riceveremo un corpo nuovo, una volta che entreremo nella vita eterna o nel giorno del giudizio. Ma non vediamo come questo corpo – questo corpo debole, mortale, che mangia e che dorme, che prende il raffreddore e che sanguina – possa mai risorgere per la vita eterna. Dio avrà certamente a disposizione un materiale migliore con cui lavorare, no?». E invece no. «I primi cristiani che hanno redatto il Credo non hanno usato la parola che in greco significa corpo, ossia soma. Hanno usato la parola che in greco significa carne, sarx. Ogni volta che recitiamo il Credo, ciò che diciamo è questo: credo nella risurrezione della carne, di questa carne, della mia carne, della mia carne stanca». Così scrive Scott Hahn all’inizio del suo libro pubblicato in inglese nel 2020 e da poco tradotto in italiano dalle edizioni Ares con il titolo di Io credo risorgerò. I fondamenti cristiani della morte e della risurrezione dei corpi (pagine 208, euro 16) firmato con Emily Stimpson Chapman.
In questo libro Hahn tratta appunto della risurrezione, alla luce della Rivelazione e del magistero, e del destino della nostra esistenza a partire da quello della nostra corporeità. Con pagine che uniscono la profondità della dottrina alle riflessioni più intime dell’autore. «Una delle più grandi grazie della mia vita – scrive per esempio Hahn – fu quella di essere stato seduto a fianco di mio padre al momento della sua morte. Arrivai in ospedale la mattina presto e vidi che mia madre era stata con lui tutta la notte. Lasciò la stanza per andare a fare colazione e io presi il suo posto a fianco di mio padre. Mia madre non rimase assente per molto, ma nei venti minuti che le occorsero per mangiare qualcosa, il respiro di mio padre diventò più faticoso, rallentò e alla fine cessò. Ma “cessò” non è l’espressione giusta. Sarebbe come dire che una sinfonia “è cessata”. Le sinfonie non cessano. Terminano con un accordo orchestrale chiaro e forte. Non ci sono dubbi su quando finisce una sinfonia. E così avvenne con mio padre. Quando inspirò l’aria e poi la espirò per l’ultima volta, non fu un respiro normale. Fu chiaramente il suo ultimo respiro. La vita uscì da lui in modo quasi udibile. La sua anima aveva abbandonato il suo corpo. In quel momento, caddi in ginocchio e pregai, pieno di dolore. Avevo perso mio padre e avrei voluto che il mondo avesse smesso di girare. Poi gli chiusi gli occhi e aspettai che mia madre ritornasse. Quei momenti furono strazianti, ma furono anche una benedizione. Non mi turbò stare lì con mio padre: anzi, fu bellissimo. Seduto lì, seppi, con la stessa assoluta certezza con cui sapevo il mio nome, di essere alla presenza di qualcosa di sacro: un corpo che aveva dato vita al mio stesso corpo, un corpo che era stato riportato alla vita dal battesimo, un corpo che un giorno sarebbe risorto».
tratto da Avvenire