Una counselor racconta la sua esperienza di ascolto dei ragazzi problematici in una scuola superiore dell’hinterland milanese. Tante le esperienze negative vissute a casa, a scuola, con i coetanei

Ansia da ascolto, solitudine, rapporti problematici con le famiglie di origine ma anche con i coetanei, insoddisfazione verso la scuola. Sono i problemi emersi nel corso di un progetto che ho condotto recentemente, in qualità di counselor, presso una scuola superiore di Cinisello Balsamo, alle porte di Milano. Il progetto, chiamato “Restart Yourself”, organizzato da Telefono Donna in collaborazione con la Dirigenza scolastica dell’Istituto e finanziato con i fondi del Pnrr, aveva lo scopo di offrire supporto agli studenti con problematiche scolastiche, personali e famigliari, attraverso tre incontri ciascuno con uno dei professionisti della relazione di aiuto del team di Telefono Donna. Ho così avuto l’occasione di incontrare ragazzi dai quattordici ai diciassette anni e di parlare con loro. Tutti avevano almeno un debito formativo. Quindi il primo argomento che abbiamo affrontato insieme è stato quello della scuola.

Del resto, gli stessi incontri con me, nel ruolo di counselor, hanno dato buoni risultati perché la prima cosa che dicevo ai ragazzi era: “Sono qui per aiutarti e non per giudicarti”. Inoltre, si sentivano rassicurati anche perché precisavo che tutto quello che mi avrebbero detto non sarebbe uscito fuori dalle mura dell’aula, in quanto coperto dal segreto professionale. Ad ogni modo, sono convinta che l’atteggiamento empatico, l’attitudine all’ascolto, il sorriso, insieme all’assenza di giudizio e alla battuta allegra al momento opportuno, siano i migliori strumenti comunicativi in tutte le forme della relazione di aiuto e nel lavoro delle varie figure che si prendono cura dell’altro, a partire dagli insegnanti.

Il senso di solitudine di questi adolescenti è veramente forte. Il dialogo con i genitori è assente in moltissimi casi. Perfino lo scontro generazionale, di grande importanza quando è sano, non c’è o è sbiadito per la mancanza di comunicazione e di condivisione. Non c’è tempo per stare insieme in modo autentico. Ciascuno vive una vita parallela e l’affetto è diluito dalla stanchezza per il lavoro, dalle incombenze della quotidianità e dalla distrazione dei social media. In molte famiglie non si comunica perché ognuno ha in mano il suo smartphone, chiuso nel suo mondo, senza accorgersi che vicino a sé ci sono gli altri membri della famiglia, ci sono i figli.

Lo spaccato di vita di questi giovani è evidente: si sentono soli anche quando sono in compagnia. Per quanto ci possano essere affinità, la comunicazione non è soddisfacente perché resta a un livello superficiale. Inoltre, la maggior parte delle aggregazioni sociali sono finalizzate. Allora, c’è l’amico della palestra, quello del tennis, quello del corso di inglese e così via. Dove sono finite le aggregazioni sociali naturali e autentiche?

Ciascuno, nel corso dei nostri incontri, ha ammesso di soffrire di un non meglio specificato senso di ansia. Ho cercato, avvalendomi di vari strumenti, in primis della maieutica socratica, di farmi dire da loro stessi quale ne fosse la causa. Li facevo riflettere sul fatto che sapere l’origine di questo stato aiuta a contenerlo, pur sottolineando che non ci può essere una sana adolescenza senza stati di ansia, dovuta alle grandi trasformazioni del corpo e della mente. La loro ansia esulava però da quella propria dell’età; era una manifestazione di un vero e proprio disagio, quel dolore della mente che non si vede, ma è pervasivo e richiede cura. Era l’ansia causata dal senso di solitudine e disorientamento, che urla silenziosamente l’urgenza di ascolto da parte di adulti significativi di riferimento, di supporto e di guida.

tratto da Avvenire